E anche l'ultimo se ne è andato

Ora potremo solo leggerla sui libri e nessuno potrà più raccontarci cosa voleva dire la trincea, le mitragliatrici degli austriaci, i gas, i primi carriarmati, i primi aerei che tiravano pietre sulle trincee, il pane fatto con la biada, i muli che trasportano i cannoni, il coraggio utile in una guerra inutile, le lettere a casa scritte sui pezzi di carta, l'incontro per la prima volta di massa tra le varie genti d'italia, i piedi per muoversi....

Si è spento oggi, a 110 anni appena compiuti, Delfino Borroni, l’ultimo reduce italiano della Grande Guerra[Prima guerra mondiale] e l’ultimo cavaliere di Vittorio Veneto, l’onorificenza istituita dalla Repubblica nel 1968 per «esprimere la gratitudine della Nazione» a tutti coloro che avevano combattuto sul fronte durante la prima guerra mondiale.

Nel 1917, a diciannove anni, fu arruolato di leva nei bersaglieri ciclisti. Da allora combattè sul fronte dell’altopiano di Asiago, poi sul Pasubio e infine a Caporetto, dove visse l’esperienza delle trincee.

TESTIMONIANZA – «Caporetto è stato il posto peggiore che ho visto durante la guerra» aveva sempre dichiarato il bersagliere, che grazie alla memoria vivissima in questi anni ha confidato le sue memorie a decine di storici, provenienti da tutto il mondo. «La vita in trincea era terribile – ricordava Borroni - Il freddo, la fame, il rombo delle granate, poi c’erano gli attacchi con il gas. Quando pioveva, poi, si aveva la tentazione di dormire, ma quello era il momento in cui un attacco era più facile, allora il capitano passava, con indosso il suo cappello nero e ci urlava di stare all’erta». A Caporetto, il fante rischiò di morire. «Il sergente mi disse di uscire a vedere la situazione fuori dalla trincea. Io gli chiesi perché mandava a morire me che ero il più giovane e lui mi rispose che tutti gli altri avevano figli» raccontava il bersagliere. «Allora uscii strisciando, ma un proiettile mi colpì subito sullo scarpone. Mi finsi morto accanto a due cadaveri di altri soldati e quando gli austriaci se ne andarono, raggiunsi i miei compagni in ritirata. Il sergente mi prese la testa sulle ginocchia e pianse». Dopo qualche settimana, Delfino fu catturato. «Una volta, in prigione, cominciai a urlare, volevo scrivere alla mia famiglia che da sette mesi non aveva notizie – spiegava il veterano - L’ufficiale austriaco mi rispose: "io è da dieci anni che non torno a casa", ma poi mi diede un foglio e una penna». Qualche mese dopo, la fuga. Dopo un giorno di marcia, alla sera, nella prigione, anche l’ufficiale romeno di guardia crollò dal sonno. Delfino fuggì e si unì a un battaglione italiano a cavallo, poi prese un treno che lo portò a Piacenza. Da lì, scrisse ai genitori, che lo raggiunsero. «Stavo riposando in una tenda, alzai gli occhi e vidi gli scarponi di mio padre. Mia madre lanciò un urlo così forte, che quasi mi moriva fra le braccia».

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